Interviste FUORIFUOCO - Jill Furmanovsky, la mia foto rock
“Il rock mi ha scelto, quando ti rendi conto di aver colto l’attimo si sperimenta un’emozione grandiosa”.
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Mezzo secolo di foto che hanno colto l’attimo del rock. Per oltre 50 anni Jill Furmanovsky ha fotografato la storia della musica. Il suo lavoro è un lunghissimo album fotografico dove troviamo scatti dei Pink Floyd, di Bob Marley, gli Oasis, The Police, Sinead O'Connor, Billie Eilish, Amy Winehouse. Solo per citare alcuni nomi.
Una vera leggenda della fotografia rock Jill Furmanovsky, recentemente insignita del Legend of the Year at the So.Co Image of Music Awards, che a 70 anni conserva lo stesso entusiasmo, passione per l’arte, la musica e la fotografia di quando ha iniziato a 18 anni, fotografando, quasi per caso, il suo primo concerto al Rainbow Theatre di Londra.
Ci accoglie in call nella sua casa di Londra, e subito l’attenzione cade su una fotografia alla sue spalle. “Volete vederla? Sapete penso che sia un'immagine incredibile”. Jill ci mostra una bellissima istantanea di un giovanissimo Paul McCartney: è seduto in giardino e suona la chitarra da solo. Il bucato della famiglia è steso su un filo. “L’ha scattata il fratello, quando Paul era un ragazzo. Oltre a fare fotografie adoro collezionare immagini”. Una delle sue passioni, insieme ai nipoti e ai viaggi, anche se la macchina fotografica, afferma sorridendo, non le lascia troppo tempo libero.
Abbiamo letto che sei nata in Zimbabwe. Hai mai avuto occasione di tornare? Che ricordo hai del tuo Paese d’origine?
Devo dire che è proprio una domanda che arriva nel momento giusto, perché è in corso di realizzazione un documentario sul mio lavoro di fotografa, che parte proprio dal 1953, quando sono nata in una piccola città, Bulawayo, in quella che allora era la Rhodesia (il nome con cui veniva definito lo Zimbawe tra il 1965 e il 1979 ndr). Sono tornata a guardare le vecchie fotografie di famiglia, per lo più scattate da mio padre, soprattutto a me e a mio fratello. Papà infatti non era solo un architetto, ma pure un eccellente fotografo dilettante, tanto che in casa avevamo anche una camera oscura. Scattare foto, ascoltare jazz e suonare la chitarra erano i suoi principali hobby.
Guardando queste immagini si torna subito indietro, ci si rivede negli scatti e si colgono alcuni dettagli che ti riportano alle origini, ricordando che non sei arrivato dal nulla. Eppure, per diverse ragioni, è dal 1992 che non torno nel mio Paese natale. Invece, di recente, sono stata in SudAfrica dove con la mia famiglia trascorrevamo le vacanze quando ero bambina.
Nata in Africa, ma cresciuta a Londra. Ti senti più africana o inglese?
Devo dire che mi sono sentita straniera per molti anni. Sono arrivata nel Regno Unito quando avevo 11 anni, nel 1965, ed è cambiato tutto: sono stata come sdradicata dalla mia vita quotidiana che avevo nella mia piccola città natale, dove godevo di molta libertà. Giravo in bicicletta, andavo a giocare nella boscaglia. Ho sperimentato un’infanzia africana, benché sempre di matrice europea, non indigena voglio dire. Eppure mi è rimasta la passione per l’Africa, e in un certo momento della mia carriera ho avuto l’occasione di realizzare un progetto giornalistico e fotografico dedicato all’ANC (African National Congress ndr), immortalando Nelson Mandela, Walter Sisulu e molti altri. E per me è stato come restituire loro un senso di gratitudine, di riconoscenza.
Come persona nata in Africa, ma cresciuta poi a Londra, che cosa pensi dell’intenso dibattito sul tema della colonizzazione, che sta interessando anche il mondo della fotografia? Nella nostra intervista alla Direttrice del World Press Photo, Joumana El Zein Khoury sottolineava la necessità di andare oltre e superare il solo punto di vista occidentale, accogliendo quello di altri Paesi e culture.
Ho avuto modo di leggere l’intervista e l’ho trovata molto interessante. Guardando il mio vecchio atlante scolastico si nota che a metà degli anni Cinquanta il continente africano era quasi interamente coloniale, soprattutto britannico, belga, tedesco e portoghese. Oggi quella mappa è molto diversa e continua a cambiare, ma solo negli ultimi anni abbiamo iniziato a riflettere su tutte le conseguenze del colonialismo, perché sono passati 50-100 anni. Di fronte a questa recente presa di coscienza, abbiamo iniziato a porvi rimedio, almeno in piccola parte, ma la strada da percorrere è ancora lunga.
Provo lo stesso sconcerto, in scala minore, davanti al mio vasto archivio fotografico. Mi sembra una missione quasi impossibile assorbire tutto ciò che ho fotografato in più di 50 anni, e sto ancora scattando! Di recente mi sono resa conto che non mi resteranno abbastanza anni di vita per vederlo tutto, quindi la prossima generazione dovrà vagliarlo e valutarne la rilevanza. Speriamo che sia d'ispirazione, perché l'era del Rock & Roll è stata un'epoca particolarmente libera e creativa per i giovani.
Per le band e gli artisti la cui carriera è decollata come una cometa, come ad esempio gli Oasis, la fama è arrivata così velocemente e così intensamente che non credo abbiano avuto il tempo di digerire ciò che stava accadendo.
Ci racconti come ti sei avvicinata alla fotografia, che cosa ha fatto scattare la scintilla, in particolare per quella legata al rock?
Confesso che è stata una singolare coincidenza. Nel 1972, avevo 18 anni, e frequentavo la scuola. In quegli anni, nel Regno Unito, la fotografia non era considerata arte, tanto che non si poteva studiare nelle scuole d’arte. C'erano corsi di fotografia offerti da istituti tecnici e alcuni corsi post-laurea, come quelli del Royal College of Art, che offrivano fotografia e cinematografia, ma nel mio college (The Central School of Art and Design) non c’era altro che il dipartimento di servizio per i vari corsi di laurea.
Gli studenti che studiavano belle arti, scultura, grafica, design teatrale o ceramica, ad esempio, dovevano seguire un corso di fotografia di due settimane per fotografare il proprio lavoro. Tuttavia, a tenere i corsi erano fotografi professionisti, come Jürgen Schadeberg (1931-2020), uno dei più grandi fotoreporter del Sudafrica, e Ian Hessenberg, fotografo di moda. Sono stati per me fonte di ispirazione.
Alla fine della prima settimana ci hanno messo in mano una macchina fotografica con cui andare in giro a fare scatti nel weekend. E io sono andata al Rainbow Theatre per fotografare la band degli Yes. All’inizio provai a scattare dalla balconata, poi però ho notato alcuni fotografi nella sala, e mi sono detta: forse la gente penserà che sono un professionista se mi accovaccio accanto a loro. Nessuno mi ha fermato e ho iniziato a scattare, senza sapere bene cosa stessi facendo. Incredibilmente, due ragazzi che lavoravano al Rainbow come fotografi mi dissero che dovevano andarsene per girare un film e mi offrirono di prendere il loro posto.
Non avrei guadagnato una sterlina, ma avrei avuto completo accesso ai concerti. Il lunedì tornai al college e dissi al personale che ero stato assunta come fotografa del Rainbow. Rimasi all'università fino a conseguire una laurea in design grafico, ma di notte e nei fine settimana ero una fotografa del rock and roll. Si potrebbe quasi dire che il rock ha scelto me.
Quali sono le difficoltà legate a questo tipo di fotografia? Qual è il tuo approccio? Studi prima? Improvvisi sul momento?
Lavorare con i musicisti è meraviglioso, davvero un privilegio. E lavorare in questo campo è stata una curva di apprendimento costante. Ho dovuto procedere per tentativi ed errori. Non so se questo sia noto in Italia, ma nel Regno Unito c'è un forte legame tra le scuole d'arte e la musica. Fino agli anni '90, anche se i voti a scuola erano bassi, con un buon portfolio si poteva accedere alle scuole d'arte. Così nel mio istituto ho conosciuto diversi musicisti, come Joe Strummer, cantautore e chitarrista dei Clash, e la performer punk Lene Lovich.
In generale mi sono trovata a muovermi in un ambiente formato per lo più da persone autodidatte, senza una formazione specifica. Si respirava nel mondo dell’arte e della musica quest’atmosfera del tipo “ce la puoi fare”, che si è accentuata durante il punk, dove la frase che ricorreva spesso tra chi faceva musica era : "Se sai suonare tre accordi, puoi formare una band". E in questo contesto mi sono sentita a mio agio, incontrando molte anime gemelle tra i musicisti.
Tecnicamente quali sono le difficoltà per scattare foto di questo tipo? Come le affronti?
Dall’inizio sono cambiati molti aspetti. Negli anni Settanta si fotografava tutto in bianco e nero, e le macchine fotografiche erano ovviamente analogiche. Io usavo una Pentax e poi una Nikon. Occorreva giocare d’anticipo, mettere a fuoco, trovare l’esposizione giusta. Era tutto manuale, non esisteva nulla di automatico, però potevi restare per tutto lo spettacolo. Ci si infilava nella buca prima che la band iniziasse a suonare e si restava lì per tutto il concerto. I fotografi più esperti in genere si assicuravano di avere ancora abbastanza pellicola a metà dello show, per non perdersi il finale. Quelli con minore esperienza spesso potevano finire la pellicola prima del previsto, perdendo gli scatti più belli della fine del concerto. Ma almeno si poteva accedere agli spettacoli. Certo esistevano delle difficoltà, ma nulla di paragonabile a quelle attuali.
Tra gli anni ‘70 e 80 ho iniziato a realizzare storie giornalistiche per la stampa musicale. Si trattava di viaggiare con i musicisti e di scattare, in stile "fly on the wall", in bianco e nero, soprattutto reportage. E ha comportato un ulteriore curva di apprendimento, perché si doveva dialogare con i musicisti, non era come con i concerti, dove non parli con nessuno. Poi è arrivata l’ulteriore sfida, quella del colore, con l’avvento della rivista Face negli anni ‘80. E soprattutto è comparsa sulla scena Annie Leibovitz con le sue cover per Rolling Stone, e abbiamo, come dire, dovuto alzare il tiro e affrontare una nuova curva di apprendimento, per scattare a colori con l’illuminazione in studio. E alle difficoltà tecniche si sono aggiunte quelle legate agli aspetti commerciali, alla gestione dei montatori, etc, ma sarebbe un discorso davvero lungo.
Ma come si fa a cogliere il momento giusto, l’attimo fuggente? Scatta una sintonia con la musica, che cosa succede?
È davvero difficile da definire. Spesso mi sento frustrata dalla tecnologia e non mi considero ancora tecnicamente brava, eppure sono riuscita a cogliere il momento giusto abbastanza spesso da incoraggiarmi ad andare avanti. Spesso è qualcosa che realizzi solo dopo, almeno questo avveniva con l’anologico. Ora con il digitale puoi impostare tutto in automatico e andarti a prendere una tazza di tè e quando torni avrai delle belle foto anche se non sei stata lì a scattare. Continuo però a pensare che imparare a vedere chiaramente, essere in grado di anticipare l'azione, essere consapevoli del mood e catturare la luce, l'atmosfera e i momenti drammatici sia ciò che rende il processo fotografico così intrigante, misterioso e magico. E credo che anche lo spettatore in qualche modo lo intuisca.
Vista la tua lunga esperienza come fotografa rock, avverti ancora l’adrenalina quando lavori, quando ti capita di fotografe i musicisti, le band. Oppure non è più come quella di un tempo?
Vorrei rispondere dicendo prima di tutto questo: mi considero una fotografa, non una fotografa del rock and roll. L'adrenalina, l'energia cui accennate, deriva dal desiderio di catturare qualcosa: è un'ossessione che va al di là del rock and roll ed è più legata a un istinto innato, all'esigenza di cacciare dei nostri antenati, forse. Durante il Covid non c'era ovviamente molta musica da fotografare, così ho iniziato a fotografare una famiglia di volpi che viveva nel giardino su cui mi affacciavo da un appartamento al primo piano. All'alba apparivano con i loro piccoli e io ero pronta all'azione guardando fuori dalla finestra, ancora in pigiama, con il mio teleobiettivo, aspettando che iniziasse lo spettacolo. Scattare quelle immagini imprevedibili mi dava la stessa carica che provo quando fotografo un concerto dal vivo, perché stavo catturando qualcosa che mi affascinava. Scattare può essere un modo di adorare la vita/natura attraverso l'obiettivo e quando ci si rende conto di aver catturato un momento speciale, si prova una grande emozione. È l’adrenalina che arriva dal catturare il momento, così come quella che arriva dal lavorare di nuovo insieme ai musicisti, anche se non sento il bisogno di inseguire ogni nuovo artista. Ma se vedo qualcosa che mi emoziona, come l'anno scorso a Glastonbury, quando mi sono imbattuta in questo gruppo, Gabriel’s, che neppure suonava sul palco principale. Mi sono innamorata all'istante. Ho subito adorato la loro musica e avuto l'impulso di seguirli. E quando dico seguirli intendo dire letteralmente, mi sono fiondata sotto il palco, ma c’era troppa confusione e non ho potuto ricavare molto. Poi però ho saputo che si sarebbero esibiti nuovamente nel nord della Gran Bretagna e mi sono ritrovata all’istante con la macchina fotografica in mano, pronta a partire. Ho preso un treno, non dicendo a nessuno che sarei andata al concerto. Sono riuscita ad entrare e scattare delle immagini. Ed è stato come avere di nuovo 18 anni.
Che dire, meraviglioso. Abbiamo per te una domanda che arriva dal fotografo italiano Paolo Brillo, famoso per i suoi straordinari scatti dedicati a Bob Dylan. Chiede se la fotografia rock sia ancora attuale considerando le restrizioni, le difficoltà sugli accreditamenti, la sicurezza. Cosa ne pensi?
Lasciatemi dire che sono una grande sostenitrice del lavoro fotografico di Paolo. Penso che quello che fa è rilevante. Tutte queste restrizioni moderne - per esempio il permesso ai fotografi della stampa di riprendere solo le prime tre canzoni di un concerto - ci hanno fatto perdere qualcosa. Paolo lavora con un approccio preciso e coinvolgente. Sa dove sedersi in ogni luogo per ottenere l'angolazione migliore ed è in grado di essere invisibile, così da poter scattare per tutto il concerto quando tutti gli altri fotografi se ne sono andati. È anche un fan, quindi le sue foto esprimono la passione comune del pubblico. Inoltre, non si limita a fotografare i maestri del vintage come Dylan e Neil Young, ma scatta anche foto di nuovi talenti come St. Vincent, Aldous Harding e PJ Harvey.
Tra l'altro, per qualche anno anch’io ho inseguito anche Bob Dylan perché trovavo davvero bella la sua musica e il suo viso invecchiato. Mi piace molto, ma forse per lui non è lo stesso: preferisce il suo aspetto da giovane! (ride, ndr). Paolo fa questo tipo di lavoro clandestino meglio di me, e anche se è snervante credo che si diverta molto, come mi divertivo io a schivare le guardie di sicurezza. Ogni immagine diventa preziosa perché il processo è così difficile. Senza il contributo di Paolo la storia del rock sarebbe più povera.
Hai fotografato molti musicisti e band. C'è una curiosità, un aneddoto, una situazione curiosa e divertente che rammenti in particolare?
Con questa domande mi mettete alle strette, perché tendenzialmente mi diverte tutto quello che faccio. Però ricordo che a Parigi ho lavorato con gli Oasis e Liam era decisamente alticcio. Aveva passato la notte in bianco, senza toccare il letto, e la mattina stava ancora al bar, ma dovevamo realizzare un servizio fotografico. Siamo usciti e subito siamo stati inseguiti da una folla di persone curiose, e anche alcuni paparazzi. Liam è riuscito letteralmente a far impazzire tutti, pure il fratello maggiore Noel. Invece di fare gli scatti, continuava a inseguire le ragazze in bicicletta sui ponti. Noel era furioso. Allora gli ho detto di stare fermo in un posto, che avremmo scattato comunque con Liam che entrava e usciva dalle inquadrature, perché correva a destra e a sinistra. E devo dire che alla fine il risultato è stato eccezionale, direi simile a quelle famiglie un po' stravaganti fotografate da Diane Arbus. Sembrava di essere in una specie di commedia, in un film demenziale, in cui noi sobri cercavamo di lavorare con una persona decisamente alticcia. Alla fine, però, come ho detto, i risultati sono stati davvero molto positivi.
E c'è un gruppo o un artista a cui sei più legata?
Sì, con diversi artisti ho lavorato per molti anni, e siamo diventati amici. Ci vediamo non per scattare fotografie, ma per prendere un tè e scambiare quattro chiacchiere. Per esempio Chrissie Hynde dei Pretenders, con la quale ho iniziato a lavorare dal 1977. Un’artista unica e affascinante. Abbiamo collaborato per lungo tempo e sperimentato molto in studio, soprattutto negli anni Novanta. Ho lavorato per diversi anni anche con Noel Gallagher, David Gilmour e Nick Mason, con il gruppo Madness e con la grandissima Sinead O'Connor. Sono amici e professionisti, ma rappresentano un dono prezioso.
Cambiamo completamente tema, con un ultima domanda, per toccare un argomento molto caldo oggi nel mondo della fotografia, quello dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Che idea ti sei fatta?
È una domanda che mi hanno posto spesso e confesso di sentirmi un po’ ignorante, perché non sono sicura di aver compreso del tutto come funziona. Personalmente non mi sento minacciata da nessuna tecnologia, perché sostanzialmente sono degli strumenti. Il tema più preoccupante, quello di alterare la verità, è una questione che è sempre stata abbastanza problematica in fotografia, già con Photoshop.
E peraltro la manipolazione avveniva anche con l’analogico. In Russia si usava tagliare la persona non grata dalle foto ufficiali, a Hollywood negli anni '40 i negativi venivano aerografati o manipolati in camera oscura. La manipolazione è sempre esistita. Da ragazza, quando avevo appena iniziato la mia carriera di fotografa, guardavo la fotografia di guerra e mi chiedevo di chi potessi fidarmi per conoscere la verità. Nel lavoro del fotoreporter Don McCullin sentivo che c'era qualcosa di profondamente onesto.
Quindi, certamente le fotografie possono essere ritagliate, estrapolate dal contesto e possibilmente alterate, ma credo che rimanga essenziale, per quanto possa sembrare strano da dire oggi, trovare un fotografo di cui ci si possa fidare.